mercoledì 24 luglio 2019

Rina Fort - Chi è la belva di Via San Gregorio?

Rina Fort
Luglio 7, 2019   Maria Rosaria Cofano

Le storie di crimine che vedano i bambini tra le vittime, sono quelle più difficili da raccontare. Come si arrivi a tanto non troverà mai spiegazione; anche la stessa criminale, Rina Fort, sostenne di non averlo fatto, quando invece i guanti neri che indossava probabilmente la separavano dalla sua colpa, dalla vista di mani capaci di tutto. Lo sguardo fisso e spalancato oltre le sbarre, quello di una donna spietata ma anche come tante, desiderosa di amare ed essere amata. Tutto accadde dopo l'ennesimo rifiuto, fallimento e degenerò fino all'annientamento della famiglia del suo amante. Probabilmente sentì il bisogno irrefrenabile di cancellare dalla faccia della terra quello che non sarebbe mai stata e che non avrebbe mai avuto. Caterina Fort, detta Rina, nasce nel 1915 a Santa Lucia di Budoia. Tante tragedie nella sua vita. La casa distrutta da un fulmine, quando era solo una bambina; la morte del padre, avvenuta mentre tentava di recuperarla da un passaggio impervio in montagna; il fidanzato morto di tubercolosi a pochi giorni dal matrimonio... e la scoperta della sua sterilità. All'età di 22 anni sposa un suo compaesano, Giuseppe Benedet che, reduce dal conflitto in Abissinia, da subito diede segni di un pericoloso disagio mentale, che poi lo porterà - il giorno delle nozze - a legarla a letto e seviziarla, per poi punire se stesso allo stesso modo. Fu quindi ricoverato in manicomio, dove morì a distanza di pochi giorni. Nel 1945, ottenuta la separazione e tornata al suo cognome da nubile, decise di trasferirsi a Milano, dove già viveva la sorella. Qui conoscerà un siciliano, Giuseppe Ricciardi,
Giuseppe Ricciardi
proprietario di un negozio di tessuti in via Tenca, il quale prima diventa il suo datore di lavoro e poi l'amante. L'uomo, già sposato - stando alle testimonianze - celerà questo alla Fort, che addirittura agli amici presenterà in qualità di moglie. La famiglia risiedeva a Catania, e le voci del suo tradimento raggiunsero la vera moglie, Franca Pappalardo che, con i figli, nel 1946 decise di recarsi a Milano per appurare lo stato delle cose. Proprio a causa di ciò, la Fort venne licenziata. Trovò lavoro presso una pasticceria, ma questo non la tenne lontana dal suo amante. La loro relazione era ormai irrimediabilmente compromessa, quando Franca Pappalardo decise di affrontarla, dicendole di allontanarsi dal marito, di sparire dalla sua vita, adducendo di aspettare il quarto figlio e qualcosa di aberrante si fa strada nella mente della Fort, che prende atto che la sua sia solo una storia di letto e che l'amore non c'entri. Il desiderio di vendetta l'annebbia. Compie l'esecrebabile gesto senza graziare i bambini. A scoprire il misfatto fu la nuova commessa di Ricciardi, Pina Somaschini, la quale raggiunse la casa del datore di lavoro per ritirare le chiavi del negozio. Il cancello era chiuso, ma mancava la serratura. Il portiere sostenne di averlo chiuso alle 21 - come era solito fare tutte le sere - ma senza la serratura chiunque sarebbe potuto entrare. La Somaschini, raggiunto l'appartamento, notò la porta dei Ricciardi socchiusa. La apre su uno scenario agghiacciante: trova le vittime tutte giacenti una pozza di sangue. Nell'ingresso la signora Franca e il figlio maggiore; in cucina, gli altri due bambini. Qualcuno si era accanito come una belva su quelle povere anime innocenti. Era la strage di Via San Gregorio. Subito la donna dopo aver urlato il suo orrore, corse dalle forze dell'ordine, i quali accorsero identificando le vittime:
La moglie e i figli di Giuseppe Ricciardi
Franca Pappalardo (40 anni) moglie di Giuseppe Ricciardi, Giovannino (7 anni), Giuseppina (5 anni) Antoniuccio (dieci mesi), più quello che affermava di portare in grembo. In quei giorni Giuseppe Ricciardi era fuori per lavoro, precisamente in Toscana. L'ingagine fu affidata al famoso commissario Nardone. La vittima sicuramente conosceva il suo assassino, poiché non c'erano segni di effrazione e sulla tavola erano presenti tre bicchieri, di cui solo uno era sporco di rossetto. Mancavano anche alcuni pezzi di argenteria, ma questo probabilmente fu un gesto disperato dell'assassino per spostare l'attenzione su una probabile rapina finita male. La pista della rapina venne subito scartata, perché Giuseppe Ricciardi verteva in una condizione economica piuttosto precaria. Spesso era sul punto di chiudere il negozio. Aveva diverse cambiali in protesto. Gli affari erano in affanno, soprattutto dopo il licenziamento della Fort, considerata un'abile venditrice. Forse Ricciardi si era indebitato con qualcuno? Ma la pista più attendibile rimase quella passionale. L'assassino si era accanito come una belva idrofoba sulla donna e i bambini. Nessuno sopravvisse e in quel caso si sarebbe reso testimone. Per l'assassino dovevano sparire dalla faccia della terra. C'era un forte risentimento in quel modus operandi. Chi lo aveva messo in atto non voleva soldi, non voleva sentirsi sbagliata e respinta. Franca Pappalardo aveva lottato, cercato disperatamente di salvare i suoi bambini. Nelle sue unghie vennero trovati i capelli dell'assassina e in quello scenario di morte cruenta, la foto strappata del giorno delle nozze dei coniugi Ricciardi non lascerà più alcun dubbio. Ma dove si trovava Giuseppe Ricciardi, quando la sua famiglia veniva massacrata? Per lavoro si era recato a Prato. Informato degli eventi, venne interrogato. Durante l'interrogatorio da subito fece il nome di Rina Fort, una donna che aveva lavorato come commessa nel suo negozio, e poi divenuta la sua amante. La Fort all'epoca viveva in Via Mauro Macchi 89 e lavorava presso una pasticceria in Via Settala 43. La Polizia l'arrestatò proprio mentre serviva i clienti.

Trasportata in questura, venne interrogata. Era il 30 novembre 1946 ed erano passate solo 24 ore dal raccappricciante e plurimo omicidio. Affermò di aver lavorato presso il Ricciardi, ma di non esserne diventata l'amante. Allo stesso modo negò l'omicidio e portata sulla scena del crimine – il 2 dicembre - non ebbe alcuna reazione. Durante l'interrogatorio del commissario dott. Di Serafino – durato probabilmente quasi 20 ore - comiciò a vacillare. Confermò di essere stata l'amante di Ricciardi, ma che la loro relazione subì un arresto con l'arrivo della moglie a Milano; aggiunse di non aver toccato i bambini e che proprio il Ricciardi ne fosse il mandante, con la complicità di un fantomatico "Carmelo", con il quale la Fort si sarebbe recata a casa del Ricciardi, inscenando un furto per destabilizzare la moglie, spaventarla, dissuaderla da quella permanenza a Milano, convincerla di quanto potesse essere pericoloso vivere in quel posto. Tutto degenerò quando arrivarono in Via San Gregorio e a complicare, rendere più nebuloso il racconto dell'attuazione della carneficina, la Fort disse di essere stata drogata dal presunto "Carmelo" con una sigaretta. In seguito a tale interrogatorio, riferì al suo legale di essere stata malmenata. Nel pieno clamore mediatico, accusata di strage, il processo ebbe inizio il 10 gennaio 1950, e si svolse presso la Corte d'Assise di Milano. Durante tutte le udienze recava intorno al collo una sciarpa gialla, dunque il soprannome di "Belva con la sciarpa color canarino". Le sue deposizioni furono da subito contrastanti. Nel corso del processo non riconobbe Carmelo Zappulla, il fantomatico "Carmelo" amico del Ricciardi, quello che durante uno dei primi interrogatori aveva indicato come il suo complice, ma soprattutto come il reale assassino. Zappulla sarà anche arrestato, trattenuto in carcere per diversi mesi, ma su di lui non vennero trovate prove di un effettivo coinvolgimento nel reato. A difenderla c'era l'avvocato Antonio Marsico. Tra un'udienza e l'altra, accettò diverse interviste, nelle quali sempre sostenne di non aver toccato i bambini. L'alibi di Giuseppe Ricciardi venne confermato: realmente si trovava a Prato il giorno dell'omicidio. Affermò di essere assolutamente all'oscuro di quanto messo in atto dall'assassina, ma il suo comportamento distratto sulla scena del crimine, il mostrarsi più attento ad appurare se mancassero oggetti di valore che constatare lo sterminio della sua famiglia, portò la Corte a considerare il suo ruolo nella vicenda assolutamente poco chiaro. Proprio il cognato, durante il processo, lo accusò di essere stato un pessimo marito e padre. Va ricordato anche un aneddoto avvenuto quando il Ricciardi venne portato in Questura, dove appena vide la Fort corse ad abbracciarla. Già sapeva che la donna fosse la maggiore indiziata del delitto. Rina Fort sarà poi sottoposta a degli esami presso il manicomio criminale di Anversa, esami che dimostreranno la sua sanità mentale. Dal carcere di San Vittore sarà poi trasferita a quello di Perugia. L'indifferenza con la quale affrontò il processo, la sfrontatezza delle sue parole - che suonaro in aula come una sorta annucio solenne  - diedero la misura della sua presunzione: 

«Potrei dire che non ho paura della sentenza. Faranno i giudici. 
Mi diano cinque anni o l'ergastolo, a che può servire? Ormai sono la Fort!» 

Per la giustizia italiana lei rimase l'unica e sola colpevole, nonostante sulla scena del crimine vi fossero incongruenze tali da sollevare il ragionevole dubbio. Poteva solo una donna uccidere tutte quelle persone? Assalirle con una tanta violenza e repentinità senza ferirsi? Ottenne l'ergastolo (9 aprile 1952). A tal proposito, il 25 novembre 1953, si arrivò ad un ricorso in Cassazione, dove l'ergastolo venne confermato. In carcere trascorrerà 29 anni, tra incubi e crezioni di vestitini per bambini. Si arriva al 1975, anno in cui il Presidente della Repubblica Giovanni Leone le concede la grazia. Torna ad essere libera e cambia il suo nome con quello del marito rinnegato: Benedet. Si trasferisce a Firenze, dove troverà ospitalità presso una famiglia. Nel 1988 muore a causa di un infarto. La cruenza di crimini efferati come questo, solleva sempre tanto clamore e attenzione, a volte anche morbosamente parossistici. Nel marasma mediatico, tra giornalisti sfrontati e scrittori assetati di trame, andrebbero sempre ricordati quelli che abbiano dato alle vittime una rilevanza imprescindibile, mai all'ombra della sciarpa gialla della Belva di Via San Gregorio. 

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