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domenica 10 novembre 2019

Henri Landru, tra necessità e abominio

Henri Désiré Landru
Novembre 10, 2019   Maria Rosaria Cofano

Un padre sarebbe disposto a tutto pur di sfamare i propri figli, la propria famiglia? Mosso dal più onorevole proposito, l'uomo supera il limite del consentito e varca il patologico assecondando la propria crudeltà. E' Henri Désiré Landru, ai più conosciuto come Henri Landru o Barbablù: il seduttore, il truffatore, il macellaio. Un criminale francese vissuto a cavallo fra Ottocento e Novecento. Piccolo, esile, con sopracciglia folte e occhi grandi, cupi e una barba rossiccia, quella che gli valse il soprannome di Barbablu. Nacque nel 1869 a Parigi. La sua era una famiglia povera. Il padre, Julian Alexandre Silvain Landru, era un pompiere e la madre, Flora Henriquel, prendeva lavori di sartoria e lavanderia; entrambi erano ferventi cattolici. Il giovane Landru frequenterà la scuola cattolica nell'Ile Saint-Louis, divenendo diacono. Avrebbe voluto continuare gli studi di architettura, ma come tanti fu chiamato alle armi, acquisendo il grado di sergente. Proprio in questo periodo mette incinta una sua cugina che sposerà dopo aver lasciato la carriera militare. Inizia a lavorare presso un ufficio, dove sarà vittima di un raggiro economico messo in atto proprio dal suo datore di lavoro. Dopo essere stato truffato, qualcosa scatta in lui e lo porta a pensare di poter fare altrettanto. Sa di avere un forte ascendente sulle donne e decide di approfittarne, facendo coincidere la sua attività di copertura con le truffe, che vedevano appunto come protagoniste le donne che seduceva. Ma Landru cosa aveva di bello? Cosa lo rendeva un abile seduttore? A guardarlo... nulla, ma forse la sua capacità di irretire e plagiare – oltre un cospetto assolutamente ordinario e uno sguardo agghiacciante – si avvaleva di una sessualità sfrontata, di un genere che tanto avrebbe potuto attecchire su donne inesperte, vogliose o pseudo-moraliste in cerca di sistemazione. Anche il periodo storico la fa da padrone. E' il 1915, e la Francia vive un momento di grande depressione economica a causa degli eventi bellici in atto, scaturiti dalla prima guerra mondiale. Tanti uomini sono partiti per il fronte, e tanti non faranno più ritorno e molti di quelli che torneranno saranno profondamente cambiati nell'anima e nel corpo. Dunque, il furbo Landru, partendo da questi presupposti mette in piedi una truffa, abindolando donne sole, ricche e in cerca di incontri e marito. Fingendo di essere anche lui ricco e soprattutto vedovo, prende in affitto una villa isolata a Gambais (Seine-et-Oise), mette un annuncio sul giornale e, meticoloso come pochi, sceglie in maniera oculata le sue vittime. Si dice che abbia corteggiato almeno trecento donne. Ha un'aria distinta, un fare educato e affidabile. E' un acuto affabulatore, ma che sappiamo capace di celare il più vile dei raggiri. Sarebbero almeno dieci le donne che non videro più la luce del giorno oltre la porta d'ingresso della villa degli orrori. In realtà a questo numero andrà ad aggiunfìgersi anche un bambino, che purtroppo andò incontro allo stesso destino della madre. Le donne morivano nell'esatto momento in cui firmavano una procura atta a renderlo beneficiario dei loro conti bancari. Prima venivano strangolate, poi fatte a pezzi e quindi bruciate nel forno della villa. Le polveri sparse nei campi e il forno tornava pulito come prima. Davvero organizzato per essere un semplice meccanico! Ma del resto, le pagine che si interessino di criminologia sono piene di assassini seriali organizzati. L'isolamento della villa non era del tutto sicuro: il fumo e l'odore nauseabondo di carne bruciata arrivava alle abitazioni più vicine, che proprio non sapevano spiegarsi il perché di una stufa accesa anche d'estate. La sensazione che dietro tale andazzo ci fosse qualcosa di sospetto, portò molti residenti a segnalarlo direttamente alla polizia. Difficile coglierlo sul fatto, difficile arrivare a pensare come lui. Tutte le prove venivano metodicamente pulite o fatte sparire. Lo scaltro Landru riuscì a farla franca tante volte, ma il suo raggiro cruento cominciò a vacillare. Ne 1906, in carcere tenta il suicidio e gli viene riconosciuta una lieve infermità mentale, Rientra in carcere nel 1909, sempre a causa di una truffa matrimoniale ai danni di una donna. Nel 1914, tornerà in carcere per scontare una pena di tre mesi. Si rende conto di rischiare una condanna a vita e successiva deportazione nelle colonia penale della Guyana, dove le voci del disagio vissuto dai carcerati nella colonia, erano quanto mai acclarate. Non avrebbe permesso questo e per farlo, probabilmente si convinse che le vittime di truffa dovessero smettere di vivere e portarsi il misfatto nella tomba. Nessuno avrebbe potuto riconoscerlo, quindi nessuna testimonianza in Tribunale. Riuscirà ad occultare e celare i suoi orrendi crimini fino a quando nel 1918 al sindaco di Gambais venne inviata una lettera, nella quale si chiedevano informazioni su su una donna, Anne Collomb, trasferitasi in quel paese in compagnia di un certo Dupont. Il sindaco rispose di non avere notizie in merito, ma il tutto prese una piega pericolosa, quando al sindaco venne recapitata una seconda lettera, dove un'altra persona chiedeva informazioni in merito ad un'altra donna, Célestine Buisson, trasferitasi nel paese in compagnia di un certo M. Frémyet. Le famiglie delle donne scomparse vennero convocate dal sindaco e si raggiunse la conclusione che entrambe le donne risposero allo stesso annuncio sul quotidiano Le Petit Journal, datato 1 maggio 1915 e che i signori Dupont e Frémyet fossero la stessa persona. In seguito alla denuncia sottoscritta dai familiari, partirono le indagini e si arrivò ad un domicilio: la villa di Gambais, chiamata l'Ermitage. Il signor Tric, ovvero il proprietario della villa, affermò di averla affittata al famigerato Frémyet, residente a Rouen. Falso! Nessun M. Frémyet risultava a Rouen e la posta indirizzata a quell'ubicazione, tornava all'indirizzo di una delle donne scomparse: Célestine Buisson. L'indagine si era arenata quando, l'8 aprile del 1919, un amico di famiglia di una delle donne scomparse, riconobbe Landru. Le indagini svolte nel luogo dove venne avvistato, condussero ad un certo Lucien Guillet, che il 12 di aprile del 1919, proprio il giorno del suo 50° compleanno, venne arrestato per truffa e appropriazione indebita; accusa poi trasformatasi con l'aggravante di omicidio di dieci donne più un bambino. 
 
Henri Landru durante il processo
Durante il processo - che ebbe inizio il 7 novembre 1921 davanti alla Cort d'Assise di Seine-et-Oise nella sede di Versailles - Landru affermò di aver truffato, ma di non aver ucciso le donne scomparse, adducendo anche, a riprova di quanto sostenuto, di voler vedere i corpi delle vittime. La stufa incriminata venne portata in sede processuale, e tanti furono i denti e i pezzi di ossa trovati durante le indagini e le perquisizioni svolte nel giardino della casa di Gambais; ma quello che sembrò inchiodarlo e condurlo definitivamente alla sua ormai inevitabile condanna, fu il diario che teneva, dove con grande precisione annotava le spese sostenute per i viaggi di sola andata delle signore. Delle spese di ritorno non v'era traccia, perché mai quelle povere sventurate avrebbero fatto ritorno alla propria vita. La sua duttile favella non riuscì a dare una spiegazione convincente di tali equivoche annotazioni. La condanna a morte venne emessa il 30 novembre 1921. Il 24 febbraio 1922, Alexandre Millerand (presidente in carica della repubblica francese), riufiuterà la richiesta di grazia. Alle ore 6.05 del 25 febbraio 1922 nel cortile della prigione di St. Pierre a Versailles venne allestito il patibolo e la ghigliottina

🔴 La testa di Landru sarà poi conservata nel Museum of Death (il museo della morte) di Hollywood Boulevard, a Los Angeles, la cui prima sede storica fu a San Diego, sino al 1995, anno in vui fu fondato da JD Healy e Catherine Shultz con l'obiettivo dichiarato del museo di "rendere le persone felici di essere in vita". 

🔴 Barbablu è una fiaba trascritta da Charles Perrault nel XVII secolo, che fece la sua prima apparizione nella raccolta Histoires ou contes du temps passé, nella precedente versione manoscritta intitolata I racconti di Mamma Oca, nel 1697.

🔴 Poteva un personaggio come Landru non suggestionare, influenzare la cultura di massa fino a rendersi immortale attraverso opere letterarie, teatrali, cinematografiche? Quello che segue sono solo alcuni riferimenti, citazioni, trasposizioni ed altro, in cui si fa menzione o riferimento esplicito alla vicenda crimanale di Landru. Buona ricerca, buona lettura:
  • Charlie Chaplin s'ispirò all'affare Landru per creare il personaggio principale di Monsieur Verdoux del 1948.

  • Nel 1960 il regista W. Lee Wilder dirige il film Le 10 lune di miele di Barbablù,
  • Claude Chabrol realizzò il film Landru, proiettato per la prima volta il 25 gennaio 1963.
  • Totò e le donne (Steno, Mario Monicelli 1952.
  • Totò contro i quattro (Steno 1963.
  • Fatti e fattacci. Puntata del 15/03/1975
  • Delitto a Porta Romana (1980)
  • Ballata dell'odio e dell'amore (2010)
  • Désiré Landru, 2005
LIBRI
  • Recherche (La prigioniera), Proust
  • Il meccanico Landru, scritto da Andrea Vitali, 2010
  • L'uomo che guardava passare i treni di Georges Simenon (in cui viene menzionato).
  • Gli ultimi giorni di Raymond Queneau (in cui viene menzionato).
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mercoledì 24 luglio 2019

Rina Fort - Chi è la belva di Via San Gregorio?

Rina Fort
Luglio 7, 2019   Maria Rosaria Cofano

Le storie di crimine che vedano i bambini tra le vittime, sono quelle più difficili da raccontare. Come si arrivi a tanto non troverà mai spiegazione; anche la stessa criminale, Rina Fort, sostenne di non averlo fatto, quando invece i guanti neri che indossava probabilmente la separavano dalla sua colpa, dalla vista di mani capaci di tutto. Lo sguardo fisso e spalancato oltre le sbarre, quello di una donna spietata ma anche come tante, desiderosa di amare ed essere amata. Tutto accadde dopo l'ennesimo rifiuto, fallimento e degenerò fino all'annientamento della famiglia del suo amante. Probabilmente sentì il bisogno irrefrenabile di cancellare dalla faccia della terra quello che non sarebbe mai stata e che non avrebbe mai avuto. Caterina Fort, detta Rina, nasce nel 1915 a Santa Lucia di Budoia. Tante tragedie nella sua vita. La casa distrutta da un fulmine, quando era solo una bambina; la morte del padre, avvenuta mentre tentava di recuperarla da un passaggio impervio in montagna; il fidanzato morto di tubercolosi a pochi giorni dal matrimonio... e la scoperta della sua sterilità. All'età di 22 anni sposa un suo compaesano, Giuseppe Benedet che, reduce dal conflitto in Abissinia, da subito diede segni di un pericoloso disagio mentale, che poi lo porterà - il giorno delle nozze - a legarla a letto e seviziarla, per poi punire se stesso allo stesso modo. Fu quindi ricoverato in manicomio, dove morì a distanza di pochi giorni. Nel 1945, ottenuta la separazione e tornata al suo cognome da nubile, decise di trasferirsi a Milano, dove già viveva la sorella. Qui conoscerà un siciliano, Giuseppe Ricciardi,
Giuseppe Ricciardi
proprietario di un negozio di tessuti in via Tenca, il quale prima diventa il suo datore di lavoro e poi l'amante. L'uomo, già sposato - stando alle testimonianze - celerà questo alla Fort, che addirittura agli amici presenterà in qualità di moglie. La famiglia risiedeva a Catania, e le voci del suo tradimento raggiunsero la vera moglie, Franca Pappalardo che, con i figli, nel 1946 decise di recarsi a Milano per appurare lo stato delle cose. Proprio a causa di ciò, la Fort venne licenziata. Trovò lavoro presso una pasticceria, ma questo non la tenne lontana dal suo amante. La loro relazione era ormai irrimediabilmente compromessa, quando Franca Pappalardo decise di affrontarla, dicendole di allontanarsi dal marito, di sparire dalla sua vita, adducendo di aspettare il quarto figlio e qualcosa di aberrante si fa strada nella mente della Fort, che prende atto che la sua sia solo una storia di letto e che l'amore non c'entri. Il desiderio di vendetta l'annebbia. Compie l'esecrebabile gesto senza graziare i bambini. A scoprire il misfatto fu la nuova commessa di Ricciardi, Pina Somaschini, la quale raggiunse la casa del datore di lavoro per ritirare le chiavi del negozio. Il cancello era chiuso, ma mancava la serratura. Il portiere sostenne di averlo chiuso alle 21 - come era solito fare tutte le sere - ma senza la serratura chiunque sarebbe potuto entrare. La Somaschini, raggiunto l'appartamento, notò la porta dei Ricciardi socchiusa. La apre su uno scenario agghiacciante: trova le vittime tutte giacenti una pozza di sangue. Nell'ingresso la signora Franca e il figlio maggiore; in cucina, gli altri due bambini. Qualcuno si era accanito come una belva su quelle povere anime innocenti. Era la strage di Via San Gregorio. Subito la donna dopo aver urlato il suo orrore, corse dalle forze dell'ordine, i quali accorsero identificando le vittime:
La moglie e i figli di Giuseppe Ricciardi
Franca Pappalardo (40 anni) moglie di Giuseppe Ricciardi, Giovannino (7 anni), Giuseppina (5 anni) Antoniuccio (dieci mesi), più quello che affermava di portare in grembo. In quei giorni Giuseppe Ricciardi era fuori per lavoro, precisamente in Toscana. L'ingagine fu affidata al famoso commissario Nardone. La vittima sicuramente conosceva il suo assassino, poiché non c'erano segni di effrazione e sulla tavola erano presenti tre bicchieri, di cui solo uno era sporco di rossetto. Mancavano anche alcuni pezzi di argenteria, ma questo probabilmente fu un gesto disperato dell'assassino per spostare l'attenzione su una probabile rapina finita male. La pista della rapina venne subito scartata, perché Giuseppe Ricciardi verteva in una condizione economica piuttosto precaria. Spesso era sul punto di chiudere il negozio. Aveva diverse cambiali in protesto. Gli affari erano in affanno, soprattutto dopo il licenziamento della Fort, considerata un'abile venditrice. Forse Ricciardi si era indebitato con qualcuno? Ma la pista più attendibile rimase quella passionale. L'assassino si era accanito come una belva idrofoba sulla donna e i bambini. Nessuno sopravvisse e in quel caso si sarebbe reso testimone. Per l'assassino dovevano sparire dalla faccia della terra. C'era un forte risentimento in quel modus operandi. Chi lo aveva messo in atto non voleva soldi, non voleva sentirsi sbagliata e respinta. Franca Pappalardo aveva lottato, cercato disperatamente di salvare i suoi bambini. Nelle sue unghie vennero trovati i capelli dell'assassina e in quello scenario di morte cruenta, la foto strappata del giorno delle nozze dei coniugi Ricciardi non lascerà più alcun dubbio. Ma dove si trovava Giuseppe Ricciardi, quando la sua famiglia veniva massacrata? Per lavoro si era recato a Prato. Informato degli eventi, venne interrogato. Durante l'interrogatorio da subito fece il nome di Rina Fort, una donna che aveva lavorato come commessa nel suo negozio, e poi divenuta la sua amante. La Fort all'epoca viveva in Via Mauro Macchi 89 e lavorava presso una pasticceria in Via Settala 43. La Polizia l'arrestatò proprio mentre serviva i clienti.

Trasportata in questura, venne interrogata. Era il 30 novembre 1946 ed erano passate solo 24 ore dal raccappricciante e plurimo omicidio. Affermò di aver lavorato presso il Ricciardi, ma di non esserne diventata l'amante. Allo stesso modo negò l'omicidio e portata sulla scena del crimine – il 2 dicembre - non ebbe alcuna reazione. Durante l'interrogatorio del commissario dott. Di Serafino – durato probabilmente quasi 20 ore - comiciò a vacillare. Confermò di essere stata l'amante di Ricciardi, ma che la loro relazione subì un arresto con l'arrivo della moglie a Milano; aggiunse di non aver toccato i bambini e che proprio il Ricciardi ne fosse il mandante, con la complicità di un fantomatico "Carmelo", con il quale la Fort si sarebbe recata a casa del Ricciardi, inscenando un furto per destabilizzare la moglie, spaventarla, dissuaderla da quella permanenza a Milano, convincerla di quanto potesse essere pericoloso vivere in quel posto. Tutto degenerò quando arrivarono in Via San Gregorio e a complicare, rendere più nebuloso il racconto dell'attuazione della carneficina, la Fort disse di essere stata drogata dal presunto "Carmelo" con una sigaretta. In seguito a tale interrogatorio, riferì al suo legale di essere stata malmenata. Nel pieno clamore mediatico, accusata di strage, il processo ebbe inizio il 10 gennaio 1950, e si svolse presso la Corte d'Assise di Milano. Durante tutte le udienze recava intorno al collo una sciarpa gialla, dunque il soprannome di "Belva con la sciarpa color canarino". Le sue deposizioni furono da subito contrastanti. Nel corso del processo non riconobbe Carmelo Zappulla, il fantomatico "Carmelo" amico del Ricciardi, quello che durante uno dei primi interrogatori aveva indicato come il suo complice, ma soprattutto come il reale assassino. Zappulla sarà anche arrestato, trattenuto in carcere per diversi mesi, ma su di lui non vennero trovate prove di un effettivo coinvolgimento nel reato. A difenderla c'era l'avvocato Antonio Marsico. Tra un'udienza e l'altra, accettò diverse interviste, nelle quali sempre sostenne di non aver toccato i bambini. L'alibi di Giuseppe Ricciardi venne confermato: realmente si trovava a Prato il giorno dell'omicidio. Affermò di essere assolutamente all'oscuro di quanto messo in atto dall'assassina, ma il suo comportamento distratto sulla scena del crimine, il mostrarsi più attento ad appurare se mancassero oggetti di valore che constatare lo sterminio della sua famiglia, portò la Corte a considerare il suo ruolo nella vicenda assolutamente poco chiaro. Proprio il cognato, durante il processo, lo accusò di essere stato un pessimo marito e padre. Va ricordato anche un aneddoto avvenuto quando il Ricciardi venne portato in Questura, dove appena vide la Fort corse ad abbracciarla. Già sapeva che la donna fosse la maggiore indiziata del delitto. Rina Fort sarà poi sottoposta a degli esami presso il manicomio criminale di Anversa, esami che dimostreranno la sua sanità mentale. Dal carcere di San Vittore sarà poi trasferita a quello di Perugia. L'indifferenza con la quale affrontò il processo, la sfrontatezza delle sue parole - che suonaro in aula come una sorta annucio solenne  - diedero la misura della sua presunzione: 

«Potrei dire che non ho paura della sentenza. Faranno i giudici. 
Mi diano cinque anni o l'ergastolo, a che può servire? Ormai sono la Fort!» 

Per la giustizia italiana lei rimase l'unica e sola colpevole, nonostante sulla scena del crimine vi fossero incongruenze tali da sollevare il ragionevole dubbio. Poteva solo una donna uccidere tutte quelle persone? Assalirle con una tanta violenza e repentinità senza ferirsi? Ottenne l'ergastolo (9 aprile 1952). A tal proposito, il 25 novembre 1953, si arrivò ad un ricorso in Cassazione, dove l'ergastolo venne confermato. In carcere trascorrerà 29 anni, tra incubi e crezioni di vestitini per bambini. Si arriva al 1975, anno in cui il Presidente della Repubblica Giovanni Leone le concede la grazia. Torna ad essere libera e cambia il suo nome con quello del marito rinnegato: Benedet. Si trasferisce a Firenze, dove troverà ospitalità presso una famiglia. Nel 1988 muore a causa di un infarto. La cruenza di crimini efferati come questo, solleva sempre tanto clamore e attenzione, a volte anche morbosamente parossistici. Nel marasma mediatico, tra giornalisti sfrontati e scrittori assetati di trame, andrebbero sempre ricordati quelli che abbiano dato alle vittime una rilevanza imprescindibile, mai all'ombra della sciarpa gialla della Belva di Via San Gregorio. 

CORREZIONE GRAMMATICALE E SINTATTICA. EDITING...

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