lunedì 18 aprile 2022

Leonarda Cianciulli, la saponificatrice di Correggio.

Aprile 04, 2022  Maria Rosaria Cofano

Ho ricominciato a disegnare figure in posizione fetale, mi era successo lo stesso quando scrissi Nora Daren, altro periodo di grande prostrazione, ma lievemente paragonabile a quello che sto vivendo dopo la morte di mia madre. Esorcizzare il dolore attraverso la scrittura o la pittura, trovo che sia un modo possibile per corroborare il cervello, distrarlo, aiutarlo a rigenerarsi. Sono solo degli schizzi, senza la presunzione di tramutarsi in pittura. Da molto non dipingo! Ho dedicato tanto di quel tempo all'illustrazione digitale da perdere qualsiasi tipo di attrattiva per il colore proprio in senso materiale. Mi imbatto in una storia in bianco e nero, pur sempre macchiata di sangue. Il colore che manca alla faccia di Leonarda Cianciulli, in un video scovato su YT, dove il cronista la definisce “folle e delinquente”. E' una storia agghiacciante quella che mette in piedi. 

 


La osservo. La sua ordinarietà destabilizza. Il video ovviamente è datato. All'epoca, era rinchiusa nel Manicomio giudiziario di Aversa. Parla, con una consapevolezza omicida giustificata dalla superstizione. La guardi e capisci quanto possa essere pericolosa un'apparente normalità, perché capace di celare il più macabro dei segreti. Potrebbe essere tua madre, la mia. Nulla lascia pensare cosa concerti la sua testa: il compiere, con estrema precisione quel tipo di crimine che non si limiti ad uccidere, ma ancora decida di infierire sulla vittima, evolvendo e definendo il crimine stesso nella sua attuazione. Capelli canuti, raccolti con cura. Molto ordinata. Occhi scuri, sparuti e piccoli. Sdentata, semianalfabeta, carica d'enfasi inizia ad inanellare una serie di argomentazioni, che dovrebbero farci comprendere la sua “natura”, il suo “perché”. Non guarda direttamente nella telecamera. Il tono è teatrale, saturo di enfasi: sembra ripetere una storiella imparata a memoria. Forse frutto di imbeccate di avvocati con l'intento di edulcorarne la pena? Chi lo sa?! Dubbio che coinvolse anche il suo Memoriale di 700 pagine, intitolato "Confessioni di un'anima amareggiata". In una piccola stanza, tra fotografie incorniciate di giovani volti. Affabulatrice. A guardarla, non gela il sangue, per questo ancora più pericolosa. Adduce argomentazioni che, a suo avviso, giustificherebbero la pratica dell'omicidio. Perché la Cianciulli è soprattutto madre di qualcuno: di 12 figli, di cui 8 morti prematuramente. Tra maledizioni e profezie, consumata dalla superstizione, si convinse di dover difendere i 4 figli superstiti a qualsiasi costo. Per spiegare il vizio mentale, assai organizzato dell'assassina seriale, si deve andare a ritroso... e quando mai non lo si deve fare?! Leonarda nasce a Montella, un paese nell'Irpinia, il 14 aprile 1894. Quello che sappiamo di lei arriva dritto dritto dal “suo” Memoriale, e quello che non sappiamo di quest'anima amareggiatta, probabilmente se l'è portato nella tomba. Il dubbi sul suo Memoraile, sulla stesura dello stesso, sono legittimi, se si considera che avesse frequentato solo fino alla terza elementare. Il padre, Mariano Cianciulli, allevava bestiame, mentre l'avvenente madre, Serafina Marano era già vedova con due figli, e lo sposò in seconde nozze. Diventa inevitabile leggere la sua infanzia, che a volte ritorna similare a tanti come lei. I figli del disprezzo e della paura, finiscono col diventare il prolumgameto del male perpetrato dai genitori. All'età di quattordici anni, Serafina Marano, durante il viaggio di ritorno dal collegio di suore di Firenze, conosce Salvatore Di Nolfi, che l'avrebbe rapita e violentata. Dunque il matrimonio riparatore e la gravidanza odiata, dalla quale nascerà Leonarda. Tale tesi è sostenuta da alcuni e smentita da altri, anche perché la Cianciulli era l'ultima dei sei figli non la prima. Racconterà della sua inclinazione alla morte, tentando di suicidarsi varie volte.

«Cercai due volte di impiccarmi; una volta arrivarono in tempo a salvarmi e l'altra si spezzò la fune. La mamma mi fece capire che le dispiaceva di rivedermi viva. Una volta ingoiai due stecche del suo busto, sempre con l'intenzione di morire, e mangiai dei cocci di vetro: non accadde nulla».

Diventa quasi scontato pensare a come potesse sentirsi indesiderata, sbagliata; eppure non ci sono fonti certe di quanto sostenga e racconti, prove inconfutabili una infanzia disgraziata e infelice. Soffriva di epilessia. I tentativi di suicidio sono quelli avvenuti nel 1941 nelle carceri giudiziarie di Reggio Emilia. Era una donna annebbiata da subdole credenze e feroci maledizioni, che iniziarono a deviare la sua mente, quando sostenne di essere stata appunto maledetta dalla madre in punto di morte, alla vigilia del suo matrimonio con Raffaele Pansardi, avvenuto nel 1917, all'età di 23 anni. Per lei la famiglia aveva scelto un altro marito, che tra l'altro le era anche cugino (si apprende dal suo Memoriale). Si allontanò definitivamente dalla madre, e la perdita di 8 dei suoi 12 figli, rese il suo dolore connotato di sfortuna, una sfortuna per forza riconducibile all'odio materno. Muoverà il suo delirio trovando panacee e orribili profezie nel frequentare zingare; una delle quali le disse: «Ti mariterai, avrai figliolanza, ma tutti moriranno i figli tuoi», e così fu, perché le sue prime 13 gravidanze si risolsero con 3 aborti spontanei e 10 neonati morirono nelle culla. Succede poi, sempre secondo il suo Memoriale, che l'incontro con una strega del suo paese la porti a completare 4 gravidanze. I figli diventeranno la ragione di ogni cosa, da difendere ad ogni costo, da quello che si vede, ma soprattutto da quello che non si vede e si crede esistere.

«Non potevo sopportare la perdita di un altro figlio. Quasi ogni notte sognavo le piccole bare bianche, inghiottite una dopo l'altra dalla terra nera... per questo ho studiato magia, ho letto i libri che parlano di chiromanzia, astrologia, scongiuri, fatture, spiritismo: volevo apprendere tutto sui sortilegi per riuscire a neutralizzarli».

Nel 1930, a causa del terremoto del Vulture, si trasferisce con il marito a Correggio, dopo aver vissuto a Lauria, Montella e Lancedonia. Prima di arrivare all'omicidio, le voci che giravano sul suo conto non erano per niente benigne. Tanti la ritenevano una donna facile e propensa ai raggiri, e questo la porterà - nel 1912 - ad essere incriminata per furto a soli 18 anni; mentre nel 1919, a Montella, fu accusata di minaccia a mano armata (pugnale); nel 1927 fu condannata per truffa a 10 mesi e 15 giorni, scontati nel carcere di Lauria e poi in quello di Lagonegro. Aveva abbindolato, con la sua rustica favella, una povera contadina, togliendole soldi e oggetti di valore e per questo fu costretta a pagare anche una multa di 350 lire. Era furba, risoluta e sapeva come scegliere le sue vittime. Il marito era impiegato all'Ufficio del Registro, e con un misero stipendio, poco contribuiva a far quadrare i conti, ma a quello ci pensava lei, che si improvviserà chiromante, astrologa, venditrice di abiti, mobili, attività che riuscirà a mettere in piedi grazie anche ai risarcimenti devoluti alle vittime del sisma del Vulture. Raggira donne benestanti, sole, desiderose di riscattarsi e trovare conforto; le invita a casa, cucina per loro, si mostra accogliente. Il marito, debole e di sicuro incapace di gestire una mente diabolica come la sua, troverà più facile comprensione nel vino, fino a lasciarla nel 1939, con l'inizio della prima guerra mondiale. Il funambolesco teatro di menzogne, messo in piedi circuendo e imbonendo la sofferenza, l'infelicità altrui, si complica irrimediabilmente, quando uno dei suoi figli, quello più grande, il prediletto, ormai adulto e iscritto all'Università, rischierà la chiamata alle armi. Solo la magia le darà la forza di affrontare quel delirio. La sua mente criminale, annebbiata dall'orrore della paura di perderlo in guerra, arriva al parossismo attraverso un sogno, in cui prenderà atto che solo attraverso il sacrificio umano, solo attraverso la morte di altri, preserverà la vita del figlio. Dirà ai giudici che nel sogno fu proprio la madre a consigliarle un tale abominevole scambio. Tre donne, che erano solite recarsi a casa della Cianciulli, spariscono. Le voci la vogliono colpevole, ma lei respinge qualsiasi tipo di illazione. Albertina Fanti parente di Virginia Cacioppo, una delle donne scomparse, appunto ne denucia la scomparsa al questore di Reggio Emilia. Il caso verrà affidato al commissario Serrao. Un Buono del Tesoro appartenente alla Cacioppo, presentato al Banco di San Prospero dal parroco Adelmo Frattini, diventa una traccia fattibile per la risoluzione della scomparsa; infatti il prete affermò di aver ricevuto il buono da Abelardo Spinabelli, amico della Cianciulli, il quale disse di averlo ricevuto proprio dalla Cianciulli come saldo di un debito. Viste le diverse persone coinvolte, poteva trattarsi di un'associazione per delinquere: la Cianciulli, il prete, Abelardo Spinabelli e anche il figlio, che inviò diverse lettere da Piacenza, fingendo di essere la vittima; anche si occupò di far lavare alcuni vestiti riconducibili alle donne scomparse. I sospetti sul prete e Spinabelli caddero, rimasero in piedi solo quelli sulla Cianciulli e figlio, che scontò cinque anni di reclusione e poi rilasciato per insufficienza di prove. La donna giurò di essere l'unica colpevole, quindi lo scagionò. Gli omicidi ebbero luogo dal 1939 al 1940-41. Dirà: 

«Non ho ucciso per odio o per avidità, ma solo per amore di madre». 

Arriva alla completa confessione dopo diverse ore di interrogatorio. La Cacioppo affermò di averla uccisa con la complicità di Spinarelli. Alcune parti del cadavere vennero sottoposte a saponificazione, ovvero bollivano in un pentolone pieno di soda caustica portato a 300 gradi, per poi creare saponette con l'allume di rocca e la pece greca; altre, buttate nel canale di Correggio. Una parte del sangue lo mischiava al latte e il cioccolato per farne dei biscotti, che poi dava da mangiare ai figli, sicura che quella pratica li avrebbe resi immortali, dunque l'identificazione con la dea Teti, perché entrambe volevano salvare dalla morte i propri figli. Mancavano all'appello le altre due donne. La sua reticenza alla confessione si inclinò, rivelando le atroci sofferenze delle povere sventurate e i reperti trovati a casa sua, come la dentiera, il sangue e i vestiti delle vittime, la inchiodarono definitivamente. 

Le vittime: Ermelinda Faustina Setti, Francesca Clementina Soavi, Virginia Cacioppo.



Rivolgendosi all'agente di polizia Valli, che insisteva per sapere che fine avessero fatto le altre donne:

«Ebbene me le ho mangiate le mie amiche, se vuole essere mangiato anche lei, son pronta a divorarlo [...], le scomparse me le avevo mangiate una in arrosto, una a stufato, una bollita» e nelle sue memorie aggiunse: «Se sapeste cosa c'era di verità in queste parole...»

Fu dichiarata colpevole; 30 anni di reclusione, di cui i primi due da scontare in un ospedale psichiatrico e una pena di 15.000 lire. 

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