Rina Fort |
Luglio 7, 2019 Maria Rosaria Cofano
Le
storie di crimine che vedano i bambini tra le vittime, sono quelle
più difficili da raccontare. Come si arrivi a tanto non troverà mai
spiegazione; anche la stessa criminale, Rina Fort, sostenne di non
averlo fatto, quando invece i guanti neri che indossava probabilmente
la separavano dalla sua colpa, dalla vista di mani capaci di tutto.
Lo sguardo fisso e spalancato oltre le sbarre, quello di una donna
spietata ma anche come tante, desiderosa di amare ed essere amata.
Tutto accadde dopo l'ennesimo rifiuto, fallimento e degenerò fino
all'annientamento della famiglia del suo amante. Probabilmente sentì
il bisogno irrefrenabile di cancellare dalla faccia della terra
quello che non sarebbe mai stata e che non avrebbe mai avuto.
Caterina Fort, detta Rina, nasce nel 1915 a Santa Lucia di Budoia.
Tante tragedie nella sua vita. La casa distrutta da un fulmine,
quando era solo una bambina; la morte del padre, avvenuta mentre
tentava di recuperarla da un passaggio impervio in montagna; il
fidanzato morto di tubercolosi a pochi giorni dal matrimonio... e la
scoperta della sua sterilità. All'età di 22 anni sposa un suo
compaesano, Giuseppe Benedet che, reduce dal conflitto in Abissinia, da subito diede segni di un pericoloso disagio mentale, che poi lo
porterà - il giorno delle nozze - a legarla a letto e seviziarla,
per poi punire se stesso allo stesso modo. Fu quindi ricoverato in
manicomio, dove morì a distanza di pochi giorni. Nel 1945, ottenuta
la separazione e tornata al suo cognome da nubile, decise di
trasferirsi a Milano, dove già viveva la sorella. Qui conoscerà un
siciliano, Giuseppe Ricciardi,
Giuseppe Ricciardi |
La moglie e i figli di Giuseppe Ricciardi |
Trasportata in questura, venne interrogata. Era il 30 novembre 1946 ed erano passate solo 24 ore dal raccappricciante e plurimo omicidio. Affermò di aver lavorato presso il Ricciardi, ma di non esserne diventata l'amante. Allo stesso modo negò l'omicidio e portata sulla scena del crimine – il 2 dicembre - non ebbe alcuna reazione. Durante l'interrogatorio del commissario dott. Di Serafino – durato probabilmente quasi 20 ore - comiciò a vacillare. Confermò di essere stata l'amante di Ricciardi, ma che la loro relazione subì un arresto con l'arrivo della moglie a Milano; aggiunse di non aver toccato i bambini e che proprio il Ricciardi ne fosse il mandante, con la complicità di un fantomatico "Carmelo", con il quale la Fort si sarebbe recata a casa del Ricciardi, inscenando un furto per destabilizzare la moglie, spaventarla, dissuaderla da quella permanenza a Milano, convincerla di quanto potesse essere pericoloso vivere in quel posto. Tutto degenerò quando arrivarono in Via San Gregorio e a complicare, rendere più nebuloso il racconto dell'attuazione della carneficina, la Fort disse di essere stata drogata dal presunto "Carmelo" con una sigaretta. In seguito a tale interrogatorio, riferì al suo legale di essere stata malmenata. Nel pieno clamore mediatico, accusata di strage, il processo ebbe inizio il 10 gennaio 1950, e si svolse presso la Corte d'Assise di Milano. Durante tutte le udienze recava intorno al collo una sciarpa gialla, dunque il soprannome di "Belva con la sciarpa color canarino". Le sue deposizioni furono da subito contrastanti. Nel corso del processo non riconobbe Carmelo Zappulla, il fantomatico "Carmelo" amico del Ricciardi, quello che durante uno dei primi interrogatori aveva indicato come il suo complice, ma soprattutto come il reale assassino. Zappulla sarà anche arrestato, trattenuto in carcere per diversi mesi, ma su di lui non vennero trovate prove di un effettivo coinvolgimento nel reato. A difenderla c'era l'avvocato Antonio Marsico. Tra un'udienza e l'altra, accettò diverse interviste, nelle quali sempre sostenne di non aver toccato i bambini. L'alibi di Giuseppe Ricciardi venne confermato: realmente si trovava a Prato il giorno dell'omicidio. Affermò di essere assolutamente all'oscuro di quanto messo in atto dall'assassina, ma il suo comportamento distratto sulla scena del crimine, il mostrarsi più attento ad appurare se mancassero oggetti di valore che constatare lo sterminio della sua famiglia, portò la Corte a considerare il suo ruolo nella vicenda assolutamente poco chiaro. Proprio il cognato, durante il processo, lo accusò di essere stato un pessimo marito e padre. Va ricordato anche un aneddoto avvenuto quando il Ricciardi venne portato in Questura, dove appena vide la Fort corse ad abbracciarla. Già sapeva che la donna fosse la maggiore indiziata del delitto. Rina Fort sarà poi sottoposta a degli esami presso il manicomio criminale di Anversa, esami che dimostreranno la sua sanità mentale. Dal carcere di San Vittore sarà poi trasferita a quello di Perugia. L'indifferenza con la quale affrontò il processo, la sfrontatezza delle sue parole - che suonaro in aula come una sorta annucio solenne - diedero la misura della sua presunzione:
«Potrei dire che non ho paura
della sentenza. Faranno i giudici.
Mi diano cinque anni o l'ergastolo, a che può servire? Ormai sono la Fort!»
Mi diano cinque anni o l'ergastolo, a che può servire? Ormai sono la Fort!»
Per
la giustizia italiana lei rimase l'unica e sola colpevole, nonostante
sulla scena del crimine vi fossero incongruenze tali da sollevare il
ragionevole dubbio. Poteva solo una donna uccidere tutte quelle
persone? Assalirle con una tanta violenza e repentinità senza
ferirsi? Ottenne l'ergastolo (9 aprile 1952).
A tal proposito, il
25 novembre 1953,
si arrivò ad un ricorso in Cassazione,
dove l'ergastolo venne confermato.
In carcere trascorrerà 29 anni, tra incubi e crezioni di vestitini
per bambini. Si arriva al 1975, anno in cui il Presidente della
Repubblica Giovanni Leone le concede la grazia. Torna ad essere
libera e cambia il suo nome con quello del marito rinnegato: Benedet.
Si trasferisce a Firenze, dove troverà ospitalità presso una
famiglia. Nel 1988 muore a causa di un infarto. La cruenza di crimini
efferati come questo, solleva sempre tanto clamore e attenzione, a
volte anche morbosamente parossistici. Nel marasma mediatico, tra
giornalisti sfrontati e scrittori assetati di trame, andrebbero
sempre ricordati quelli che abbiano dato alle vittime una rilevanza
imprescindibile, mai all'ombra della sciarpa gialla della Belva di Via
San Gregorio.
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